Riccardo Rossotto – Avvocato – R&P Legal
Per dare una valutazione sul contenuto del disegno di legge sulle fake news e, in generale, comunque, sulle notizie che ingenerano odio e violenza nella Rete, bisogna – a mio avviso – fare riferimento al quadro normativo e giurisprudenziale esistente “al netto” di tale nuova normativa. Soltanto così si potranno apprezzare le novità immaginate dal nostro legislatore al fine di limitare, o comunque reprimere, fenomeni che, se non arginati, potrebbero incidere in misura devastante sulla nostra convivenza civile e democratica.
Proviamo, quindi, a fare un ragionamento articolato sul nostro (sarebbe meglio riferirsi alla maggioranza di noi?) sentire in materia.
La libertà di espressione è la regola numero 1 in una democrazia.
Ma quando essa diventa inadeguata, denigratoria, addirittura diffamatoria, o peggio, manipolatrice dei cervelli di una nazione, bisogna porsi il tema di come rispettarla ma regolamentarla. Il punto di equilibrio è molto delicato perché è facilmente contaminabile nel senso della censura o della non repressione assoluta. Il Procuratore Generale della Repubblica di Roma Giuseppe Pignatone, in un suo recente intervento istituzionale, ha sottolineato questo aspetto proprio per evidenziare la necessità, da un lato, del rispetto del principio costituzionale della libertà di espressione, ma anche, dall’altro, di approfondirne perimetro e monitoraggio.
La Rete ha amplificato il fenomeno rendendolo ancora più grave e delicato. La velocità di trasmissione dei dati, la posizione dei service provider di non considerarsi responsabili sui contenuti diffusi nella Rete, hanno creato una situazione simile a quella di un mondo di giornali, letti da tutti, che però non hanno né un editore né un direttore né un regime di responsabilità. In questo contesto, la notizia falsa, la bufala, la menzogna, diventano non un rischio gestibile ma una certezza ingestibile.
Nel nostro sistema normativo, al di là di una previsione specifica di reati contro un eccesso di libertà di espressione, si è consolidata una giurisprudenza sostanzialmente basata sui principi articolati nella famosa decisione della Cassazione del 1984, una sentenza denominata “decalogo”, proprio perché affrontando questo tema definiva i principi a cui i giudici avrebbero dovuto ispirarsi nella valutazione dei casi concreti. In breve, la ratio di tale decisione era che la libertà di espressione deve sempre essere bilanciata con il rispetto della reputazione e dell’onore del destinatario dei giudizi espressi. Quindi, sì alla critica ma sempre e soltanto se basata su fonti dichiarate e se, di per sé, attendibile. La Cassazione coniò il termine “continenza espressiva” che divenne poi il principio richiamato dalle corti di merito in questi oltre 30 anni. Per “continenza espressiva” si intende che il diritto ad esprimere le proprie opinioni non deve contenere ingiurie e invece deve sempre motivare il perché si critica un terzo o più terzi. Stesso ragionamento, la Cassazione lo sviluppò per la satira, che è lecita ma nei limiti del diritto di critica.
Come detto, la Cassazione italiana si è allineata a questo principio con degli ovvi up and down in funzione del contesto politico e mediatico degli ultimi 30 anni. È ovvio che il mondo del Web ha portato una vera e propria rivoluzione nelle modalità di espressione delle nostre idee: come detto, velocità di trasmissione dei dati e sostanziale irresponsabilità dei soggetti che se li scambiano stanno rischiando di creare un territorio come il Far West al tempo dei primi coloni e degli indiani. Pochi controlli, comunque in ritardo (la mitica figura dello sceriffo impotente di fronte alle bande rivali) e, in ogni caso, non efficaci di fronte all’imperversare degli illeciti.
C’è bisogno, quindi, di una maggiore intensità della tutela delle persone destinatarie di espressioni in qualche modo non riconducibili alla “continenza espressiva” di cui alla ratio della Cassazione del 1984. La Rete deve essere oggetto di una maggiore sorveglianza, tenendo conto anche delle difficoltà provenienti dalla sua non fisicità e non territorialità. Non esistono, per ora, filtri interni (i grandi player internazionali hanno iniziato a comunicare di voler avviare un processo di autodisciplina, ma siamo ancora alle dichiarazioni stampa e non a dei veri e propri comportamenti virtuosi), la posizione ufficiale delle media company è quella di non dichiararsi responsabili per i contenuti diffusi, non esistono autorità pubbliche sovranazionali con il ruolo e i poteri per vigilare nella Rete.
Che fare, dunque? Il ddl immaginato dai firmatari del nostro Parlamento si pone proprio il tema di incominciare a scrivere qualcosa, a fissare dei principi che rafforzino la normativa penale esistente e la ratio della giurisprudenza civile e penale consolidatasi sul punto. Non possiamo illuderci che l’effetto di tale norma potrà essere risolutivo, ma dobbiamo considerarlo un importante punto di partenza che se sarà associato ad una vera e propria autodisciplina dei grandi player internazionali (finalmente responsabilizzati nel loro ruolo di intermediari di tutte le miliardate di dati che ci scambiamo in ogni secondo della nostra vita che, non scordiamocelo, permette loro di chiudere dei bilanci annuali con rilevanti profitti proprio scaturenti dalla loro posizione dominante in questo mercato) potrà finalmente creare una griglia sia di norme pubbliche sia di norme autodisciplinari tali da reprimere fin sul nascere tutte le manifestazioni di pensiero mirate a creare l’odio o la violenza nelle nostre comunità anche attraverso la creazione di notizie false non controllate né controllabili.
Torino, 26 aprile 2017